BASTA!!!

La violenza di genere non è una componente nuova nella storia dell’uomo e si esprime con forme diverse, in contesti geografici, culturali ed economici molto differenti, ma è sempre animata dal medesimo scopo: il mantenimento dello squilibrio di potere tra i generi nella società.

Nei primi quattro mesi dell’anno sono state uccise 34 donne quasi tutte ammazzate da mariti ed ex, compagni e fidanzati, familiari, conoscenti; altre 4 sono state massacrate nei primi giorni di maggio facendo salire a 38 il “parziale” dell’anno, la più piccola aveva 2 anni, la meno giovane 91; due vittime di genere femminile alla settimana, in media, senza tregua; Lombardia, Puglia, Emilia-Romagna e Piemonte guidano la triste classifica delle regioni con il più alto numero di donne uccise: 5 ciascuna da gennaio. Le mani assassine restano in prevalenza quelle di partner ed ex partner; 23 presunti autori nel primo quadrimestre 2020, 22 in quello 2021.

Il pieno riconoscimento dei diritti fondamentali delle donne e delle ragazze è una parte inalienabile, integrante e indivisibile dei diritti umani universali ed è indispensabile per il progresso, la pace, la sicurezza e lo sviluppo. La violenza basata sul genere, comprese le prassi nocive dettate dalle consuetudini o dalle tradizioni, costituisce una violazione dei diritti fondamentali, in particolare della dignità umana, del diritto alla vita e del diritto all’integrità della persona.

Con il DL n.93 sulla violenza di genere si sono introdotte misure contro il femminicidio, su 11 articoli 5 sono sul contrasto al fenomeno e sono arrivati tre nuovi tipi di aggravanti: quando il fatto è consumato ai danni del coniuge, anche divorziato o separato, o del partner pure se non convivente; per chi commette maltrattamenti, violenza sessuale e atti persecutori su donne incinta; per la violenza commessa alla presenza di minori di 18 anni.

Ma ho uno strano timore; che una volta assicurato il fenomeno alla materia giuridica, una volta esauritasi l’utilità mediatica dell’argomento, ci sia un calo di attenzione sul tema, affievolendo la percezione della sua urgenza. Il decreto legge è un ottimo inizio ma cura l’effetto non la causa.

Il femminicidio è, forse più di altri, un crimine espressione della degenerazione culturale e sociale di un paese, non solo di una lacuna giuridica che nell’immediatezza è utile ma anche più semplice colmare. Un crimine sordo, complesso, perché non sempre riconducibile a patologie, dipendenze, condizioni sociali o economiche. Sordo come le urla delle donne che non riescono a chiedere aiuto, che non riconoscono il pericolo, sordo come le voci o le sovrastrutture culturali che spesso le dissuadono dal denunciare. Dunque la soluzione come sempre non può essere solo tecnicamente giuridica. Deve essere coltivata con costanza all’interno di un processo culturale e deve essere profonda.

I numeri ci danno la dimensione di quanto sia trasversale e ormai radicato il malessere che conduce al crimine. Ma attenzione a non assuefarsi ai numeri: dietro ogni “caso di cronaca” ci sono almeno due vite, due storie, anni di educazione, affetti, solitudine e delusioni, un mondo. Abbiamo bisogno di rinnovare linguaggi, affettivi ed emotivi, strumenti sociali e giuridici che corrispondano all’entità del problema. Usiamo la parola femminicidio perché forse vogliamo richiamare la brutalità dell’uomo che perde di vista la donna come essere umano, ma già questa, che può sembrare una banale scelta semantica, è riduttiva perché accende un faro sui soggetti sbagliati: femmine e non donne.

Non femmine, ma donne, con una volontà, un’identità, un ruolo sociale e delle responsabilità e l’uomo che ci usa violenza fino ad uccidere, uccide proprio perché donna, non in quanto femmina. Ad uccidere non è un maschio, è un uomo che ha perso la sua umanità o che forse la ha esasperata nei suoi aspetti più infimi, uomini diseducati dal punto di vista affettivo, uomini che hanno assunto dei modelli culturali, in base ai quali diventa vitale ottenere tutto quanto si vuole o è previsto che si debba avere.

Ancora una volta tocca a noi donne predisporre la leva per un atto di generosa rivoluzione, nessuna indulgenza, sia ben chiaro, nei confronti di quegli uomini che ci picchiano, ci violentano e ci uccidono.

La rivoluzione e il cambiamento partono da lontano, da quelli che saranno gli uomini di domani, i nostri figli, dal dare loro modelli di realizzazione diversi. Ma non possiamo farlo da sole, abbiamo bisogno e dobbiamo esigere strumenti sociali, economici, di welfare e politiche del lavoro che ci aiutino a farli diventare uomini autonomi sentimentalmente ed emotivamente.

All’estero le donne hanno strumenti sociali ed educativi corrispondenti alle necessità che l’emancipazione comporta, strumenti grazie ai quali si può essere madri, single o eventualmente mogli, lavoratrici, professioniste indipendenti. Esistono asili nido e scuole che permettono di condividere la crescita e il processo educativo di un figlio, strumenti economici e di welfare, regolamentazione del diritto del lavoro che permettono di lavorare e sostenere l’impegno emotivo e fisico dell’essere madri e compagne, rapportandosi al mondo maschile con più serenità e quindi di trasferire sulla famiglia e la società le conseguenze dell’emancipazione femminile in modo non traumatico.

Bisogna trovare gli strumenti per far maturare agli uomini una cultura dell’emancipazione femminile, non fargliela subire.

La leva per infondere la sensibilità e l’attenzione verso il mondo femminile possiamo sollevarla solo noi, non fosse altro perché è un mondo che frequentiamo nella sua interezza. Credo sia questa la battaglia vera e lunga che ci attende: partire dall’educazione dei piccoli, con l’obbiettivo che donne e uomini delle future generazioni possano crescere e governare insieme il cambiamento.

Per arrivare ad un cambiamento è necessario che la lotta alla violenza sulle donne acquisti una maggiore legittimità sociale: è ora di smettere di vedere le violenze compiute sulle donne, specie se all’interno di relazioni familiari ed affettive, come un problema privato.

Osvalda Zanaboni, coordinatrice Coordinamento donne democratiche Adda Martesana

 

Io sono certa che nulla più soffocherà la mia rima,

il silenzio l’ho tenuto chiuso per anni nella gola

come una trappola da sacrificio,

è quindi venuto il momento di cantare

una esequie al passato.

Alda Merini

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